Studio Guido Moretti

A BOTTEGA DA BUGLI

 

Una telefonata del Professore all'ora di pranzo e poco dopo, svoltato l'angolo di viale Panzacchi dove abitavo e saliti i pochi gradini di Via Savenella 21, suonavo al campanello di Guido Bugli. A metà degli anni '50 ero un ragazzino appena dodicenne ed ero allievo del maestro. Anzi "l'allievo" perché, al di là della sua attività di insegnante scolastico, ero l'unico giovane che accettava in bottega. Erano sedute estenuanti - molte ore in piedi, evidentemente a denti stretti perché ricordo soprattutto le mascelle indolenzite - che spesso cercavo di evitare. Ma da tutta una vita sono grato a Bugli per la confidenza con le cose della pittura e soprattutto del disegno che, senza farmi mai realmente 'lezione", il Professore mi ha trasmesso. In realtà una vera lezione fu solo la prima in cui, dopo aver piazzato una bottiglia sul tavolo di cucina, mi distese un foglio bianco davanti e, con una matita tenera mi disse di disegnarla. Io timidamente misi giù quello che credevo di vedere e, per riprodurre la bocca della bottiglia leggermente dall'alto, disegnai una forma affusolata appuntita alle estremità. Bugli mi prese la matita e tranquillamente ci fece una croce sopra. Convinto che quello fosse stato un test di ammissione, mi preparavo a prendere congedo, invece (chissà che cosa poté trovare Bugli in quel penoso disegno per accettarmi poi come allievo) mi chiese: dove vedi questi spigoli nella bottiglia? indicando le estremità appuntite del mio "fuso”. Era un'ellisse, con tutta la sua rotondità, quella che andava disegnata, più o meno panciuta a seconda del punto di osservazione, e non un fuso. Capii allora che, per rappresentarla, bisognava guardare la realtà con occhi diversi o, semplicemente, bisognava guardarla.

Il passaggio alla pittura - naturalmente ad olio - fu complesso, soprattutto per questioni di attrezzatura. Con i miei genitori ero andato in visita presso i parenti di un anziano pittore di stile bertelliano da poco deceduto, Antonio Sartini, i quali mettevano in vendita quadretti e strumenti dell'artista. Tornando a casa mi sentivo veramente sicuro di me tenendo tra le mani una cassettina di legno piena di minuscoli tubetti di colore, in parte usati. Bugli la vide e inorridì. Era l'inizio dell'estate e si stava con i vetri spalancati. Spalle alla finestra, uno dopo l'altro cacciò in strada un certo numero dei miei preziosi tubetti, il primo dei quali accompagnato dal decisivo commento: questo è un giallo m...! Sì perché la tavolozza di Bugli non ammetteva deroghe: i colori erano quelli, da 13 a 15, e basta. E disposti da sinistra a destra in quest'ordine: Blu di Prussia, Oltremare azzurro, Bianco di zinco, Giallo di cadmio chiaro, Giallo di cadmio scuro (a volte), Ocra gialla, Terra di Siena naturale, Terra di Siena bruciata, Terra verde, Verde smeraldo, Arancio (a volte), Vermiglione, Rosso carminio, Lacca di garanza scura, Terra d'ombra. Mancava il nero (quello di Sartini era volato subito fuori dalla finestra) perché “in natura il nero non esiste”. Le ombre più fonde si creavano mescolando i colori, soprattutto Terra di Siena bruciata con Verde smeraldo oppure Blu di Prussia con Carminio o Lacca di garanza. Il pennello era uno solo. Bugli naturalmente ne aveva diecine, ma tutti dello stesso tipo: quello che si chiamava "a lingua di gatto", cioè grande, piatto e con il bordo leggermente arrotondato. Con quel maestoso pennello Bugli danzava sulla tela, modellando il soggetto con pennellate larghe e corpose che, sulla tavolozza, lavoravano volentieri nella zone delle Terre per attingere il colore. Ma con lo stesso pennello tracciava gli esili profili delle "bilance" da pesca della sua amatissima Valle o il filo di fumo dell'immancabile candelina nelle nature morte. Era un vero Maestro, di quelli che pochi hanno la fortuna di incontrare: Maestro nella tecnica pittorica e, prima ancora, nel disegno, che riteneva basilare per fare pittura.

I colori erano Maimeri, bei tubi di lucido piombo confezionati a tre per scatola, con quello al centro ribaltato per ridurre l'ingombro. Personalissima era la vaschetta dell'acqua ragia (vietato l’olio di trementina) che realizzava con le sue mani, come presto feci anch'io. Si tagliava un vasetto di conserva di pomodori all'altezza di circa quattro centimetri dalla base. Su questo si stendeva una reticella metallica fitta, rimboccandola su tutto il bordo. Al centro si lasciava una certa abbondanza perché potesse essere resa concava. Versando l'acqua ragia, una parte restava al di sopra della rete in modo che il pennello, strisciandovi contro rete, decantasse sul fondo il colore eccedente rimanendo invece intinto nel diluente pulito. Corredavano la tavolozza uno straccio per asciugare il pennello che in realtà era un bel pezzo di stuoia, spessa e rigida, sostituita più volte durante il lavoro, e una spatola a cazzuola, con la lama piuttosto sottile. Questa serviva per ripulire di quando in quando la tavolozza, e qui la maestria di Bugli mi sembrava inarrivabile: con un solo passaggio ti faceva trovare i residui di tutti i colori come appena spremuti dal tubetto. Il ricavato del lavoro di spatola serviva per preparare le nuove tele, i cui telai venivano montati in studio: con un forbicione più simile a una cesoia, dopo una sommaria misurazione, veniva tagliata la tela da un grande rotolo, poi ripiegata e inchiodata sul telaio già provvisto delle biette necessarie a mantenere la tela in tensione. Tutto questo lavoro, oltre che per risparmio, era necessario perché i formati di Bugli erano per lo più inusuali, con le sue lunghe “marine” o i girasoli alti e stretti. Poi, lui sul grande cavalletto da studio e io di lato a poca distanza sul cavalletto da campo, a dipingere lo stesso soggetto. Che, a quei tempi, era spesso costituito da un drappo appeso, davanti al quale un vaso di fiori con mela e candelina, oppure bottiglie, lampade a petrolio e cuccume polverose. Si dipingeva a persiane chiuse, con lampade che illuminavano i telai e una particolare cura, naturalmente, per l'illuminazione del soggetto. Il Professore ogni tanto passava al mio cavalletto e io vedevo, in pochi secondi, trasformarsi i miei torbidi e informi tentativi in qualcosa che si illuminava, che prendeva volume e la tela era uno spazio a tre dimensioni, in cui si poteva liberamente circolare, così mi sembrava, anche dietro agli oggetti. La mela era già rotonda prima del fatidico colpo di "lumetto" bianco e ocra che rispecchiava la luce della lampada in una superficie tondeggiante: lumetto che non doveva essere dipinto se non come ultima, quasi superflua pennellata.

Una piccola lampada a petrolio con la base di lamiera rossa e il tubo di vetro polveroso, che appare in tanti quadri di Bugli, proviene dalla nostra cantina. Guai a spolverarla, prima di offrirgliela in dono! Mi bastò provarci su una bottiglia che gli proposi come soggetto per capire che non dovevo più farlo... Perché il Professore aveva, diciamo così, un carattere piuttosto esplicito. Io ero un ragazzino che evidentemente stava al proprio posto perché ricordo soprattutto le sue rudi esternazioni nei confronti di altri, in particolare di critici e di colleghi. Ma era anche capace di inondare di catinelle d'acqua i bimbetti di Via Savenella quando giocavano in strada in modo troppo rumoroso. Non ho mai saputo quali compensi Bugli ricevesse dai miei genitori per la mia iniziazione alla pittura. Comunque a un certo punto so che gli fu regalata una vecchia Fiat Topolino, l'auto "da campagna" di mio padre, in famiglia chiamata Sputafuoco: e il nome la diceva lunga sulla sua affidabilità. Credo che anche al Professore abbia giocato qualche scherzo. In realtà Bugli era, a quei tempi, motociclista, tanto che in moto, per una breve stagione pittorica estiva, si avventurava regolarmente fino a Parigi! Le tele erano accuratamente preparate, non troppo grandi e di uguale misura. In numero di 6 o 8, sistemate con cinghie e distanziate tra loro da nottolini di legno a due punte fissati ai quattro angoli, venivano trasportate ai lati della moto (i distanziatori erano per tenere scostate le tele al ritorno, quando certamente sarebbero state ancora fresche). E a Bologna, una bella mostra di soggetti parigini al Circolo Artistico di via Clavature, sempre lamentando quanto fosse costoso esporre i quadri già incorniciati!.

Tra i tanti ricordi che ancora mi trasportano a quegli anni lontanissimi, in cui intraprendevo con passione il magico viaggio sul limitare della creazione artistica, uno è rimasto particolarmente luminoso e so che lo devo tutto a Bugli. La notte di Natale del 1956, tra i pacchi e i pacchetti dei genitori e di noi quattro figli, uno era voluminosamente anomalo. Ed era per me! Fu una gioia che ancora oggi riesco a rivivere quella di scoprire uno splendido cavalletto da campo, in legno di ciliegio e cinghie di cuoio che racchiudeva nel proprio ventre odoroso la grande scatola di zinco ricolma dei tubetti Maimeri, in numero e dimensione "conformi", con il Bianco di zinco più grande degli altri, e il tutto coperto dalla classica tavolozza a due cerniere ripiegata. Avevo la stessa attrezzatura del Professore! E non avevo più alibi. Su quel cavalletto sono passate infinite, indimenticabili ore di sofferenza e di soddisfazione, negli anni successivi, con le sedute da Bugli sempre meno frequenti e la mano che sapeva andare da sola. Questo mondo mi ha poi sempre accompagnato, sia che io abbia dipinto o disegnato, sia che abbia solo osservato, per disegnare mentalmente quello che vedevo. E' un viaggio che dura ancora ed è una parte di me. Per questo ancora grazie, Professore, dal profondo del cuore del suo "giovane" allievo, e infiniti auguri!